Non nascondo che lo studio delle
dinamiche interne alla Chiesa Cattolica mi affascina molto. Ho sempre avuto interesse per lo studio della storia del Papato, delle questioni etiche e
politiche che hanno interessato la Chiesa di Roma dalla sua nascita ad oggi.
Per questioni anagrafiche il mio
interesse è rivolto soprattutto alla Chiesa del secolo scorso e del nuovo
millennio. Nasco nel 1986 e quindi nasco nel periodo di Giovanni Paolo II. All’età
di 19 anni assisto alla prima cerimonia per la sepoltura di un Pontefice e la
preparazione per il conclave. Il 19 aprile 2005 assisto all’elezione di un
Pontefice, è Benedetto XVI, Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Ratzinger.
Benedetto XVI subentra ad un Papa
storico, un gigante della Chiesa contemporanea. Non è un compito facile quello di Ratzinger. Non ha il
vigore della giovinezza che aveva aiutato Giovanni Paolo II nel 1978, è un uomo
di fede e di studio, è un filosofo e un teologo. Ha lavorato per venti anni all’ombra
di Giovanni Paolo II e non è abituato ai bagni di folla. Da credente o da non
credente, a Benedetto XVI va riconosciuto il coraggio di affrontare una società
che per la Chiesa è incomprensibile. Possiamo dividerci sull'essere o meno d'accordo circa l'atteggiamento verso le donne, verso l'omosessualità e verso i costumi. L'innovazione non sta certo nei contenuti: le posizioni sulla famiglia "tradizionale" o sull'omosessualità, non sono diverse da quelle di Giovanni Paolo II e come si è visto, nemmeno da quelle di Francesco I. Questo è un dato con cui fare pace: le posizioni sostanziali della Chiesa e dei Pontefici non mutano, ed è "naturale" che sia così, è funzionale alla continuazione di una dottrina cristallizzata in duemila anni di storia e in una dottrina che regola la vita delle persone e le progenie. Ma in questo post vorrei concentrarmi sugli stili di comunicazione, sugli intenti "pastorali" dal punto di vista dei due Pontefici.
In questi anni Papa Benedetto XVI ha presentato una nuova
forma di comunicazione: mite, ma ferma. Non ha fatto propria la veemenza di
Giovanni Paolo II, è rimasto fedele alla propria indole. Da professore, i suoi discorsi erano piccole lezioni di teologia. Uno stile di comunicazione molto
particolare: delicato, fermo, tradizionale, rassicurante e mirato alla spiegazione.
Ho analizzato attentamente la
comunicazione di Benedetto XVI e i contenuti di questa. Ho trovato sempre
grande profondità e onestà nelle sue parole. Ho visto nella politica di
Benedetto XVI un tentativo onesto di riportare la barca della Chiesa su acque
tranquille, di “far pulizia” al suo interno prima di tutto. E questa è la sensazione che mi ha offerto, ciò che da spettatore ho potuto percepire.
Gli scandali sulla
pedofilia hanno di fatto incrinato il rapporto di fiducia tra Chiesa e Comunità
dei Fedeli. Benedetto XVI aveva coscienza del pericolo che incombeva e ha
capito che le energie per affrontare una rivoluzione interna alla Chiesa non
erano sufficienti per un uomo della sua età. La fatica dell’età è infatti un fatto ineludibile. Di mese in mese
le forze vengono meno, ad ottant’anni non si è più ciò che si era a
settantanove anni. Ogni anno che passa diventa insostenibile, specialmente per chi
deve ricoprire una carica di così grande importanza.
Affrontare un magistero che parla a miliardi di persone in tutto il mondo: Pastore della Chiesa Universale. Vi immaginate la pressione e il senso di isolamento che deve provare una persona che ricopre un tale incarico?
Paolo VI fu il primo a parlare della profonda solitudine del Pontefice. Ma è sempre mancato il coraggio di riconoscere la propria umanità: il rituale della vestizione può essere responsabile di questa incapacità di "rinunciare". Entri Cardinale, ti spogli delle tue vesti e diventi il Sommo Pontefice, vesti una toga bianca, pura come la neve, e cambi nome: rinunci alla tua dimensione individuale, alla tua personalità e divieni "altro".
La retorica della "trasfigurazione" inizia a cedere con Giovanni XXIII. Non a caso è lui a indire un Concilio per aggiornare la Chiesa. Non poteva essere un Pio XII, nobile, principe della Chiesa e non solo. Benedetto XVI partecipa al Concilio Vaticano II, come giovane teologo. Cresce in questo clima di rivoluzione dogmatica e procedurale, diventa cardinale e lavora con Giovanni Paolo II per venti anni. Sta nell'ombra. Riflette, scrive e supporta il Papa nelle sue scelte. Ma Benedetto XVI è novità, novità nella continuità. La sua Chiesa è quella delle origini: preghiera, misericordia, tradizione e umiltà davanti a Dio.
Vorrei poter analizzare uno per
uno gli interventi di Benedetto XVI perché, malgrado io non condivida quasi
niente delle posizioni della Chiesa, specialmente per quanto riguarda i diritti
civili e per quanto riguarda il ruolo del sacerdozio, ammiro la personalità
umile e mite di questo uomo diventato Papa. Rispetto il suo sforzo nel
custodire ciò che per lui era il valore massimo: la tutela della fede come indicata nella teologica e nelle scritture.
Lo ha
fatto recuperando tradizioni e rituali artificiosi, inscritti nella dottrina,
ma che non provenivano dagli insegnamenti di Cristo. Lo sforzo era, secondo me,
intriso di buoni intenti, ma la metodologia è stata fallace. Si è confuso il
dogma con la fede, la tradizione mondana con i principi ed i valori veri di una
religiosità recuperata.
La
comunicazione di massa ha trasformato anche la Chiesa, e Giovanni Paolo II ne è stato interprete e fautore, a torto o a ragione. Infatti, istituzione
millenaria non può restare monolitica perché i tempi corrono troppo veloci per
poterselo permettere. Ma, paradossalmente, ogni apertura alla contemporaneità
ha permesso il lento e inesorabile smantellamento dell’istituzione così come la
storia ce la ha consegnata. Raztinger ha, forse, tentato di recuperare la
tradizione dogmatica e rituale per poter ristabilire la supremazia di una
istituzione in crisi: le vestigia, il latino, la centralità delle scritture
rispetto alla comunicazione di massa, l’attenzione per le minuzie celebrative e
per gli oggetti sacri. Le encicliche stesse sono una testimonianza di questa volontà di spiegare e di recuperare quanto di ciò che è stato.
Benedetto XVI ha cercato di restituire alla Chiesa l’immagine dell’Istituzione eccellente, della
Chiesa onnipotente. Ha rivalorizzato una storia antica di duemila anni, ma lo
sforzo era quello di un uomo divenuto Papa, da solo in questo tentativo, fuori
dalla storia. La Chiesa di Cristo doveva tornare alla Sua funzione di testimone di Dio, e la figura del Papa diviene, nella testimonianza di Ratzinger, solo un mezzo per ottenere tale scopo. Non c'è infallibilità né onnipotenza nel Pontefice, egli è solo un "umile servitore nella vigna del signore".
Benedetto XVI è per tutti il Papa della
tradizione, il conservatore, il professore e il teologo. Non ha il fascino comunicativo di Giovanni Paolo II e non ha nemmeno l'idea mitologica della figura del Pontefice. Per Ratzinger, il Pontefice serve la Chiesa e Dio e per farlo deve averne le capacità: fisiche e spirituali.
Il Papa si scopre uomo e si
scopre vero testimone dell’innovazione conciliare. L’infallibilità del Papa è
ormai un'idea decaduta, il suo approccio dialogante tipico del professore e
dello studioso lo hanno indotto a non essere “monarca assoluto” ma a spiegare
le sue scelte, anche a giustificarle. Niente di più mondano e di più terreste
che giustificare e spiegare le proprie posizioni. L'atto di fede, infatti, si fa verso Dio non verso gli uomini e non verso le loro interpretazioni della vita.
Il paradosso di questo Pontificato è, secondo me,
tutto qua: c'è un tentativo di ripristinare una tradizione millenaria che poneva la
Chiesa ad un'altitudine diversa, con un metodo secolarizzato e post-conciliare.
Benedetto XVI ha tentato di spiegare alla gente la fede dal punto di vista
della Chiesa di Roma, i suoi Angelus erano questo: narrazioni situate e
studiate, episodi delle sacre scritture declinati ai giorni nostri. La capacità
di interpretare testi antichi e di spiegarli a tutti: un professore che parla agli alunni, come un filosofo greco nell'agorà. Non solo, si è anche prestato alla nuova comunicazione digitale, portando il Papato in rete, su twitter. Complesso per un Pontefice limitare il proprio intervento a 120 caratteri. Sembra che Francesco I abbia accettato di buon grado di proseguire su questa strada: nuove forme di evangelizzazione.
L’ultimo Angelus di PapaBenedetto XVI è secondo me la manifestazione più dolce e profonda dell’umiltà
di questo uomo divenuto Papa e della sua profonda razionalità, coscienza e
buonafede. Nell’ultimo Angelus Papa Benedetto XVI è visibilmente stanco, con voce
affannata e incerta, non è un "monarca assoluto", è un anziano signore che chiede
perdono per le proprie fragilità e un uomo di grande saggezza che sa
riconoscere quando è il momento di cedere il passo. Le dimissioni dal ministero
petrino hanno abbattuto definitivamente l’idea di infallibilità e onnipotenza
della figura del Pontefice e di conseguenza del Papato. Un ruolo non più divino, ma totalmente
umano e mondano, politico e sociale.
“Grazie per il vostro affetto” dice
il Papa. Una dichiarazione di gratitudine, una manifestazione di umilità, come ricorderà poco dopo Francesco I. Parla del ruolo della preghiera e del bisogno di rinnovare una
fede, forse messa in discussione dalle brutture della vita e degli intrichi di
palazzo.
Il primato della preghiera è posto come elemento fondativo della fede.
Non è isolamento dal mondo, la preghiera per Benedetto XVI è un riavvicinarsi a
Dio, salendo il “monte” verso la divinità non per restarvi, ma per tornare
indietro e offrire se stesso al mondo, ma in un modo consono alle forze e all'età. Benedetto XVI ammette di avvertire questo
messaggio particolarmente forte per se stesso, per questo momento preciso della
sua vita: “non abbandono la Chiesa” afferma. Si dedicherà alla preghiera, alla
fede profonda e personale, per servire la Chiesa. Pregherà per la Chiesa
affinché lo sporco venga lavato via. Ammette la necessità di rivoluzionare
tutto, anche la figura stessa del Sommo Pontefice: grazie a questo atto di
coraggio, la Chiesa non potrà più essere quella che è stata e paradossalmente
dovrà tornare ad essere ciò che avrebbe dovuto.
La preghiera e la misericordia
entrano prepotentemente nella vita collettiva e istituzionale della Chiesa. Nessun Pontefice dopo di lui potrà ignorare quanto fatto, il gesto di rottura
supremo: la rinuncia al ministero petrino.
Nessun Pontefice dopo di lui potrà dire: è per
sempre. Nessun Pontefice dopo di lui potrà dire che la sua esperienza
personale, come Capo della Chiesa, potrà essere scambiata con la volontà di Dio
e associata all’idea di infallibilità.
Il Pontefice è umano, troppo umano. Solo
in questo modo può partecipare alla sofferenza della Chiesa e della
collettività, solo divenendo uomo tra gli uomini, anche il Sommo Pontefice può
comprendere la sofferenza e il bisogno in cui si trovano miliardi di persone.
Il significato stesso del gesto di Benedetto XVI è di portata epocale. Questo
uomo divenuto Papa, mite e umile, ha impresso nella storia della Chiesa futura
la sua impronta indelebile. Benedetto XVI ha reso alla Chiesa un servizio senza
precedenti: sacrifica se stesso, le sue prerogative, i suoi privilegi in virtù
del bisogno di rivoluzionare l’intero sistema, di rendere la Chiesa più umile e
più vera. La fede e la vocazione tornano al centro del dibattito interno alla
Chiesa e il mondo ha assistito ad un gesto di coraggio e di profonda saggezza. La comunicazione di Benedetto XVI era funzionale a questi scopi, che gli obiettivi siano stati o meno raggiunti, è un discorso a parte che deve tenere conto della contemporaneità e della sempre più radicata "secolarizzazione": forse la Chiesa come la conosciamo noi per poter realmente riconquistare un dominio spirituale, deve cadere e risorgere dalle proprie ceneri, come una Fenice. Potrebbe essere necessaria una Chiesa "altra": il tempo non è clemente, ed esige che vengano date risposte ai temi sociali emergenti: donne, povertà, disuguaglianza sociale, politica e umana, omosessualità e famiglie alternative.
L’elezione di Francesco I è in parte il
nuovo. Un Papa non europeo, il primo dall’inizio della Storia della Chiesa,
così come conosciuta dopo Pietro (che non era europeo). Un gesuita, una figura
quasi misteriosa. Un uomo che vive umilmente e che ha scelto come nome quello
di Francesco. San Francesco d’Assisi, l’uomo ricco che si straccia le vesti
perché la vera fede non è nella ricchezza. San Francesco è l’uomo della
misericordia, della lotta alle ingiustizie e alla corruzione della Chiesa. Innocenzo
III, Papa contemporaneo di Francesco d’Assisi, conferma l’ordine dei
Francescani, pare dopo un sogno premonitore, una visione in cui la Chiesa in
rovina, decadente, distrutta dai peccati dei suoi ministri, viene salvata da un
Francesco. A distanza di 1000 anni, un Francesco diviene Papa e la sua elezione
è rottura totale con quanto è stato fino a otto anni prima.
Francesco I ignora il protocollo,
ignora le minuzie dei riti romani, gli oggetti sacri e lo sfarzo del Papato.
Cammina per strada, come un frate, parla con la gente, come un parroco, scherza
con i giornalisti e lo fa partendo sempre da una sua personale visione delle
cose. Il primo Angelus di Francesco I è una narrazione personale, è distante
dallo stile di Benedetto XVI. Non sono gli episodi delle scritture al centro della narrazione, ma l'esperienza della propria missione. Si pone
come uno fra molti: è umile nello stile, sobrio negli atteggiamenti, è
colloquiale e personale. Ogni discorso è un riferimento alla propria vita e
alla propria esperienza pastorale. L’effetto Benedetto XVI è visibile. Una chiesa umile e
originale, un cambio di passo. Il Pontefice non è più un monarca assoluto e non
è infallibile, il Pontefice è uno di noi, è parte della comunità e in quanto
tale si rapporta ad essa con amicizia e con informalità. Dice il Papa "è importante incontrarsi di Domenica, salutarsi e parlarsi, qui nella piazza". Questa affermazione racchiude, secondo me, tutto quanto c'è da osservare su questo nuovo Papa e sul suo stile. Entrambi i Pontificati si sono aperti con gesti di umiltà e con una richiesta: pregare per il vescovo di Roma affinché faccia bene il proprio dovere.
Benedetto XVI e Francesco I sono
diversi, hanno esperienze diverse. Condividono, però, un comune senso della
fede e della misericordia, mi verrebbe da dire, monacale, dedicato al sacrificio personale per essere testimoni del bisogno di cambiamento di tutta la Chiesa. Hanno anche un sogno: avere una Chiesa riformata e purificata.
Per Benedetto XVI il sogno era di cacciare il relativismo e i venti di dottrina,
per Francesco I è avere una Chiesa povera. Ricca di misericordia e carità, ma
povera di intrighi, di collusioni col potere mondano, e una maggiore apertura
alla gente e alla comunità.
Sono entrambi conservatori e difensori di una certa dottrina, ma credono nel primato
della preghiera e del dialogo, si confrontano con la gente, seppur ad altitudini
diverse. Se il processo innescato da Benedetto XVI e che Francesco I sembra
intenzionato a non interrompere, porterà vantaggi alla Chiesa, intesa come
comunità di fedeli piuttosto che come gerarchia e curia, lo si vedrà nel tempo,
la storia sarà giudice, condannerà o assolverà.
Nel frattempo non resta che augurarci che i
conservatorismi, le posizioni arcaiche e antistoriche restino fuori dal
percorso di rivoluzione appena avviato, e che i principi del Concilio Vaticano
II non solo vengano applicati, ma anche rivisti alla luce delle potenti
trasformazioni sociali e culturali che hanno interessato, interessano e interesseranno
il mondo in questo nuovo millennio.
E se questo profondo rinnovamento significherà ripensare l'intera Chiesa e ripensare anche i dogmi e la sostanza dell'istituzione, allora ben venga un Papa Francesco, portatore di un nome di umiltà profonda.
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Federico Quadrelli, sociologo, 17.03.2013.